Michele Tavola

Critico d'arte e specialista nell'ambito del Libro d'Artista, della grafica d'arte e dell'illustrazione libraria eseguita d'artisti.

Galleria San Fedele Milano

La spina dorsale di quella che potrebbe essere stata una bestia preistorica conquista sinuosa lo spazio, composta di grucce che si incastrano una nell’altra come tante vertebre.

Boutade? Invenzione concettuale? Trovata furba? Neoavanguardismo? Rivisitazione dell’Arte Povera?

Niente di tutto questo.

Afran ha mosso i primi passi, artisticamente parlando, nell’ambito della street art. Pittore dalla mano felice, ha dipinto muri in due continenti e ha respirato lo spirito di questo movimento diffuso su scala globale, di cui è rappresentante di tutto rispetto. Ha avuto la sua prima formazione presso l’Istituto d’Arte di Mbalmayo e ha studiato con alcuni tra i più grandi pittori camerunensi e congolesi, ma grazie all’esperienza di arte pubblica fatta sul campo fin da quando era giovanissimo sa raccontare il mondo, la realtà, la vita attraverso le immagini e gli oggetti del quotidiano. L’oggetto, nelle mani di Afran, per quanto possa venire semanticamente trasfigurato, come in questo caso, rimane un oggetto. E le sue forme non abbandonano mai il racconto della realtà.

Lo si chiami gruccia, ometto, omino, stampella, appendiabito, appendino, attaccapanni, o ancora si usino gli altri svariati nomi che cambiano di regione in regione, l’oggetto utilizzato da Afran  rimane sempre riconoscibile e chiaramente individuabile come lo strumento utile per ricoverare le sue originalissime giacche personalizzate. E, dopo essere passato nelle sue mani, diventa altro come i ready made di duchampiana memoria ma, a differenza delle operazioni di matrice dadaista e concettuale, si trasforma in un’altra immagine concreta.

Scheletri di niente (come viene chiamata la serie a cui appartiene anche l’opera Ezechiele 37), ma pur sempre scheletri che potrebbero essere appartenuti a dinosauri estinti milioni di anni fa o ad animali fantastici da bestiario. O forse lische di pesce (amplificate e ingigantite), avanzi di un pasto, rifiuti come se ne possono trovare a tonnellate nei sacchi dell’umido di qualsiasi città, catturati da gatti randagi e cani famelici di periferia.

Oppure, come ci suggerisce il titolo stesso della composizione, ossa umane, pronte a ricevere di nuovo il soffio della vita, come scritto dal profeta Ezechiele al quale, in questo frangente, Afran si è ispirato. E allora, per cogliere a pieno il senso dell’installazione, non resta che leggere il brano biblico che intende evocare: La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt'intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: «Figlio dell'uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore». Dice il Signore Dio a queste ossa: «Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete».


Michele Tavola

Feticci tribali o simboli global?

Le maschere e i totem in tela jeans sono l’emblema, più di ogni altra opera, del percorso artistico e personale di Fancis Nathan Abiamba, meglio noto con il più semplice e immediato pseudonimo di Afran.

Le sculture che danno vita a questa serie trovano ispirazione e origine figurativa nelle radici dell’artista e nella cultura della sua terra, in maniera evidente e istintiva. Sono l’approdo più forte della ricerca identitaria di Afran: ricerca identitaria che è una costante della sua produzione, iniziata fin dagli anni della formazione in Camerun e continuata nel fondamentale periodo trascorso in Guinea Equatoriale. Allo stesso tempo, il singolare materiale scelto per creare sculture parla esplicitamente di una dimensione urbana, propria del villaggio globale e metabolizzata da un cittadino del mondo, figlia di un sentire moderno e potentemente attuale. E in qualche modo anche le forme, pur denunciando chiaramente la matrice etnica appena sottolineata, sembrano contaminarsi con gli stili proposti dalle mode dei giovani delle metropoli occidentali. Melting pot. Curiosa ma caparbiamente ricercata mescolanza di tradizioni antiche ed esperienze dirette di vita. Sorprendente sintesi tra archetipi ancestrali e icone punk.

Afran è nato, è cresciuto e ha ricevuto il suo battesimo artistico in Africa centrale. Da qualche anno vive nel nord della Lombardia, a Barzio, paesino della Valsassina incastonato come una perla tra il gruppo delle Grigne e i Piani di Bobbio. La sua biografia parla di viaggi non previsti, percorsi aperti, scambi culturali profondi, contaminazione artistica. E imprevedibili approdi. La sua arte è street, è immediata e volutamente di facile comprensione. Rigetta intellettualismi artefatti e colpisce lo spettatore come un pugno in pieno viso. Vuole parlare alla gente, vuole farsi capire dalla gente. Non è un caso che nonostante la giovane età abbia già ricevuto numerose importanti commissioni pubbliche per realizzare murales in Africa e in Europa. Eppure tutto il suo lavoro è concettualmente teso alla salvaguardia dell’identità culturale, senza dimenticare mai le radici, le origini, il punto preciso dal quale il viaggio è iniziato.

La vita e l’arte di Afran sono incarnazione e testimonianza della possibilità di aprirsi e di condividere senza perdere se stessi. Mutare continuamente e continuamente mettersi alla prova preservando la propria diversità. Diversità sinonimo di ricchezza. E non è un caso nemmeno il fatto che oggi Afran affianchi l’attività artistica con quella educativa, in un centro di accoglienza per ragazzi difficili ai quali insegna a comunicare e a esprimersi con i linguaggi dell’arte.

Tra maggio e giugno 2013 si è gentilmente prestato ad esporre alla Torre Viscontea di Lecco insieme ai ragazzi del Liceo Artistico Medardo Rosso, accettando la sfida lanciata dai ragazzi: ovvero riflettere e lavorare insieme sul tema Volti nuovi, cose nuove, a caccia della nuova fisionomia della città e dei suoi (vecchi e nuovi) abitanti. In questa occasione, della quale Afran ha saputo cogliere la valenza simbolica ancora prima che artistica, ha scelto in maniera logica e, se vogliamo, inevitabile, di presentare le sue sculture in jeans. In stretto contatto con i giovani studenti, ancora una volta ha saputo coniugare il proprio impegno di artista con quello sociale. Afran stesso, con parole che non hanno bisogno di alcun commento, ha descritto così il proprio intervento: “Da diversi anni sto riflettendo sul concetto odierno di identità. Da noi si dice: «Per sapere dove andare bisogna capire da dove si viene». Io aggiungo: per capire dove andare, bisogna sì capire da dove si viene ma anche sapere dove ci troviamo in un determinato momento. Tortuoso e complesso risulta definire dove ci troviamo, nel contesto della società dei consumi e dei social network che abbattono le barriere spaziotemporali e partoriscono identità fluide sotto l’ala protettrice della globalizzazione. Il jeans è uno dei simbolidi questa globalità e la mia opere Blue Jeans è una tra le infinite visioni possibili che cerca di combinare la tutela del patrimonio culturale con le nuove esigenze del mondo contemporaneo; un incontro tra passato e presente; una nota malinconica a testimonianza della sofferenza nel cambiamento; il lamento dei giovani d’oggi, in balia di una battaglia tra tradizione e modernità che spesso li porta a rinnegare la propria cultura o immergersi inconsapevolmente in un’altra, in una continua ed affannosa metamorfosi”.

Michele Tavola, 2013